Pandemia e Climate Change: è ora di agire!
03/07/2020Disaccoppiare sostenibilità e marketing
29/09/2020Prosegue la serie delle mie interviste a protagonisti dell’impegno per la transizione a una società sostenibile, etica, prospera e sana. Questa volta ho avuto l’opportunità di conversare con Silvana Carcano, consulente della Commissione Parlamentare Antimafia, già componente della Commissione Antimafia della Regione Lombardia, al tempo consigliere eletta nella lista M5S come candidata Presidente, e professionista di grande esperienza nel campo delle aziende e della responsabilità sociale e ambientale. Fin da bambina appassionata all’impegno per la legalità e il contrasto alla criminalità organizzata, amica e allieva del prof. Nando Dalla Chiesa, una carriera mancata in Guardia di Finanza, ma ben recuperata in un impegno ormai ultradecennale nella società civile e successivamente nelle Istituzioni. Tra i suoi successi più significativi la legge cosiddetta antimafia della Regione Lombardia, una delle più avanzate d’Italia (L.R. 17/2015 «Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto della criminalità organizzata e per la promozione della cultura della legalità»), di cui fu la redattrice, la prima firmataria e la relatrice. Silvana scrive su Libera Informazione e ha da poco pubblicato un libro dal titolo “Tremila anni e non sentirli”, edizioni Ancora.
Con lei vorrei esplorare il peso della corruzione e dell’illegalità sullo sviluppo sostenibile del nostro Paese, i loro effetti sulla capacità della nostra comunità nazionale di rimediare al degrado ambientale e ai cambiamenti climatici, per poi passare alle possibili misure di risoluzione del problema.
D: Silvana, innanzi tutto in cosa consiste oggi il tuo impegno con la Commissione Parlamentare Antimafia?
R: La Commissione Antimafia ha numerosi «sottogruppi», chiamati Comitati. Io collaboro con il Comitato XII, quello che tratta i rapporti tra mafia e logge massoniche. A motivo, però, del giuramento fatto entrando come consulente in Commissione, posso dire ben poco, se non che il punto di partenza è il lascito della Commissione della precedente legislatura, lascito ben fatto.
D: Quali sono secondo te, appassionata di sostenibilità oltre che di legalità, gli effetti negativi più importanti dell’infiltrazione criminale sulla capacità del Paese di passare a un’economia e a una società sostenibili?
R: Gli effetti negativi del fenomeno mafioso vanno compresi alla luce di due chiarimenti.
Il primo: i mafiosi (a dispetto delle nuove e infondate teorie, che immaginano i mafiosi in doppio petto, mentre giocano in borsa e mandano i loro figli ad Oxford), pur nella loro capacità camaleontica, mantengono abitudini, atteggiamenti e linguaggi tipici delle loro culture, tramandati all’interno di un sistema familiare gerarchico. Incendiano, entrano nei cantieri, vendono pacchetti elettorali, trasformano zone comunali in discariche abusive, minacciano, intimidiscono, corrompono, prestano soldi a tassi da usura, riscuotono con violenza, modificano i PGT, entrano nel commercio, nel turismo, nei bar, nelle catene di pizzerie,
conquistano il territorio, soprattutto con il ciclo del cemento e dei rifiuti, partendo da piccoli comuni, il loro luogo di lavoro è il bar, presidiato da sentinelle, al loro soldo hanno la cosiddetta zona grigia: politici, avvocati, funzionari, etc.
Il secondo: quando le organizzazioni mafiose escono dai loro territori d’origine lo fanno come movimenti sociali di conquista. La spiegazione migliore di questa definizione ce la offre un boss più anziano, intercettato mentre dialoga con un boss più giovane, nel milanese: “E tu ricordati: il mondo si divide in due, ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”. L’obiettivo è diventare l’antistato rispetto allo Stato di diritto e ciò che si verifica è un’esportazione, in territori culturalmente distanti, di norme, riti, esercizio del potere e strutture di relazioni: un’esportazione, cioè, della cultura delle regioni di origine nei luoghi d’arrivo, nei territori colonizzati mediante attività illecite, ma anche mediante un intreccio tra legale e illegale, che dice molto sulla tollerabilità del malaffare al Nord. La colonizzazione avviene senza traumi, con naturalezza, il che consente di non avvertire lo smottamento di identità. Ecco perché “movimento sociale di conquista”: perché rovescia le civiltà colonizzate.
Queste due premesse ci dicono tanto in tema di correlazione negativa tra la presenza mafiosa e lo sviluppo sostenibile di una società: ci dice che l’alto tasso di presenza mafiosa uccide l’innovazione, distrugge il merito e le regole di sana concorrenza, allontana le menti capaci, favorisce il familismo, il clientelismo, i favori immorali, rende vischiosa e opaca la macchina statale che diventa zavorra per le imprese, degrada i costumi, regredendoli a visioni della comunità non compatibili con quelle moderne di sostenibilità, taglieggia le risorse pubbliche che non vengono allocate a favore di progettualità innovative e sostenibili.
D: Parliamo di criminalità organizzata, che è una tua “specialità”, se così possiamo dire, ma c’è un vastissimo tema “corruzione” e mancanza di etica che zavorra il Paese. Come descriveresti il problema.
R: La corruzione è come un’autostrada per le organizzazioni mafiose, genera un ambiente per loro ospitale. Considera che oggi la corruzione si è trasformata rispetto a quella del periodo di Tangentopoli, lo spiega bene uno dei protagonisti di quell’era, Piercamillo Davigo: la corruzione oggi è sistemica (coinvolge numerose figure, in tempi differenti, con dilazioni tra i «dovuti» rendendo difficile collegarne le irregolarità), diffusa (come dice Davigo, «dove c’è un corrotto presto o tardi ve ne saranno altri, fino a quando saranno le persone perbene a doversi fare da parte»), a vittima diffusa (non viene subita solo da una persona specifica, con l’interesse a denunciarla, ma coinvolge gruppi numerosi di persone, se non tutta la collettività, in modo che nessuno percepisca di esserne vittima), organizzata (mediante un patto segreto tra corrotti e corruttori, lungo tutta la catena della corruzione), seriale (chi corrompe lo fa ripetutamente, non si limita a inciampare una volta sola), mina le fondamenta del vivere civile, abbraccia e soffoca l’anima vitale del nostro Paese, inghiottendo ingenti somme pubbliche distratte da obiettivi virtuosi, favorisce il clientelismo, uccide il merito, sviluppa un sistema Paese che tiene a distanza le aziende virtuose e attrae quelle abituate al malaffare.
E capisci perché, poi, la sostenibilità, da noi, diventa ancor più un sogno agognato.
D: Perché secondo la tua esperienza sono così diffusi questi fenomeni e cosa ritieni si debba e si possa fare per trasformare profondamente la cultura nel senso dell’etica e della legalità?
R: Oggi ricorre la commemorazione della strage di via d’Amelio. Borsellino, uomo che all’attività repressiva della magistratura ha dedicato tutta la vita, sino alla morte, ha detto chiaramente che la lotta alla mafia è culturale e morale. Questa dichiarazione incalza un impegno profondo in ognuno di noi, ci responsabilizza (responsabilità = abilità a rispondere), ci obbliga a non accontentarci delle manifestazioni e delle sfilate per ricordare i nostri eroi.
Per realizzare una seria e attenta semina culturale non si può lasciar fare al caso: serve una programmazione strategicaa tutti i livelli e in tutti i settori, in cui le parole chiave diventino la partecipazione diffusa, i processi deliberativi aperti e inclusivi, basati sull’unanimità e non sulla maggioranza, la cittadinanza attiva, il controllo pubblico, la decentralizzazione del potere, la trasparenza amministrativa, il rispetto della res publica. Non lo sostengo solo io, lo chiedono anche istituzioni nazionali e mondiali: l’Autorità Nazionale Anti-Corruzione (ANAC), dedicando un intero capitolo al coinvolgimento di tutti gli stakeholder del territorio per la realizzazione dei Piani Triennali, dove raccomanda “alle amministrazioni di realizzare forme di consultazione, da strutturare e pubblicizzare adeguatamente, volte a sollecitare la società civile e le organizzazioni portatrici di interessi collettivi […]”, sottolineando, cioè, il duplice profilo di diritto e dovere alla partecipazione degli interlocutori territoriali nel sistema di prevenzione della corruzione e della trasparenza.
Sulla stessa linea si collocano le Nazioni Unite chiedendo percorsi di sviluppo di una cultura della legalità, coerentemente con l’Obiettivo 16 di sviluppo sostenibile, tali per cui la lotta al malaffare, come via per la pace, deve realizzarsi attraverso un’anticorruzione diffusa, radicata territorialmente in comunità monitoranti.
Ancora una volta, non si riuscirà a realizzare società sostenibili se non modificando la cultura di fondo italiana,frantumando quella mafiosa, corrotta, del “familismo amorale” (per cui il bene della famiglia stretta prevale su quello della collettività a qualunque costo), dell’uomo forte al comando, della delega senza controllo, dello scarso senso civico. Certo, per arrivare a questo risultato il primo passo è individuale, che interroga su chi sono io, su quanto facilmente antepongo i miei interessi rispetto a quelli collettivi, su quanto sono corruttibile, se ho il coraggio di denunciare fatti illeciti o preferisco essere omertoso, per il quieto vivere: “voi siete morti perché noi non eravamo abbastanza vivi”.
D: Da decenni si parla di riforme nelle procedure pubbliche per eliminare i fenomeni corruttivi, con scarsissimi risultati. Come imprenditore so che ci sono pochi semplici provvedimenti che potrebbero risolvere gran parte dei problemi; ne abbiamo anche parlato. Però non si prendono, preferendo arzigogolare soluzioni complesse e mai efficaci. Tu cosa porresti come provvedimenti prioritari per eliminare dalla vita dello Stato e della Amministrazioni pubbliche le principali distorsioni corruttive che oggi impediscono una maggiore equità e una più efficace spesa pubblica?
R: Vedi, non si tratta solo di nuovi provvedimenti calati dall’alto, e nemmeno, sebbene siano fondamentali, di nuovi processi di controllo. Il punto è che qualche provvedimento aggiuntivo ancora si può realizzare (penso alle nomine all’interno delle Commissioni valutatrici, all’eliminazione delle variazioni sopra una certa soglia, al conflitto di interessi, e altro ancora), ma la questione seria si gioca su un altro piano. Da un lato, abbiamo una classe dirigente (politica, imprenditoriale, di funzionari, etc.) che tutti gli indicatori inchiodano per l’allarmante propensione al malaffare (alta corruzione percepita, economia sommersa ed evasione fiscale galoppanti, collusioni mafiose, etc.). Dall’altro, la stessa classe dirigente chiede, per risolvere la crisi economica post-pandemia, deroghe a norme e leggi di ogni tipo, sino alla richiesta incredibile di sospendere il codice appalti. Tutti a chiedere snellezza, fiducia, velocità e deroghe per l’emergenza. E tutti a dimenticare che siamo il Paese costruito su emergenze (vere e inventate) in cui chi ne ha tratto vantaggio sono i soliti faccendieri, politici delle varie cricche, etc. Tutti dimenticano che quando le cose in Italia hanno funzionato è perché le si sono fatte su fondamenta morali solide, con alta competenza e valorizzazione dell’innovazione e del merito.
Torno allora a quanto detto: è una questione culturale. Bisogna promuovere una cultura della trasparenza e della leggibilità, della partecipazione diffusa, del controllo pubblico: tutto ciò richiede un contesto culturale appropriato, che non è certamente quello attuale.
D: E infine: siamo un piccolo Paese, ma abbiamo alcune tra le mafie più potenti e influenti del mondo. Esse sono una palla al piede per una Nazione che, tutto sommato, ha un potenziale enorme di sviluppo e benessere, inespresso a causa di questa zavorra pesantissima. Vedi una via d’uscita da questo triste destino, un modo per liberarsi da questo male oscuro, eppure così profondamente radicato nella nostra società?
R: Prima accennavo ad un contesto culturale a fondamento della cultura della legalità e che non è quello attuale. Ecco, va detto che, nonostante tutto, vi sono tanti casi di classe dirigente saggia, matura, etica, innovativa e responsabile. Su queste persone grava tutto il peso del futuro del Paese. Sono loro che dovrebbero andare a parlare con i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado, per i vari momenti di formazione. Non penso solo ai magistrati che continuano a lottare contro il malaffare, ma anche agli imprenditori che sanno creare un ambiente lavorativo sicuro, sano, meritocratico ed etico, nonostante le immense difficoltà quotidiane. Penso anche ai numerosi professionisti in tanti settori (da quello sanitario, a quello educativo, a quello di ricerca e sviluppo, a quello artistico-creativo, a quello giornalistico, a quello artigianale, contadino, di assistenza ai deboli, di lavoro domestico, etc.), che, in silenzio, nel nascondimento, sorreggono il nostro Paese.
La questione è unire le forze, coordinarle, e far sì che una cultura differente, quella in cui al primo posto vi sia la nonviolenza (in senso esteso, si intende), diventi quella predominante.
È lo stesso processo culturale che serve per avviarci con serietà e convinzione verso lo sviluppo sostenibile e l’economia circolare.
Come al solito, però, in Italia, corriamo il rischio che “tutto cambi perché nulla cambi”, come ci insegna Tomasi di Lampedusa.
Con questo monito si conclude questa preziosa intervista con Silvana Carcano, profonda conoscitrice dei mali del nostro Paese, ma anche donna capace di uno straordinario impegno positivo al servizio dello Stato, convinta com’è che sia possibile trasformare la cultura italiana nel segno dell’etica, del merito e della legalità. Una chiamata alla nostra responsabilità di fare ciascuno la sua parte, ogni giorno.
Grazie dunque all’ospite di oggi e appuntamento ai miei lettori a prossime occasioni, in questo filone che si sta rivelando, almeno a me e spero non solo, estremamente interessante.