Ovvero… come sconvolgere il tuo sistema di management per ottenere risultati straordinari
Una delle ossessioni del management è, giustamente, la “performance”, la prestazione. In pratica, quanto le risorse impegnate in un processo vengono messe utilmente a frutto. Fin qui nulla di originale, anzi: è compito di un manager assicurarsi che le risorse a sua disposizione vengano impiegate al meglio. Ma è molto interessante guardare alle organizzazioni con l’occhio distaccato dell’esterno per accorgersi che i modelli di management più diffusi sono fortemente inefficaci nel garantire le migliori prestazioni rispetto alle risorse impiegate. Perché? Fondamentalmente a causa del divario crescente avvenuto nel recente passato tra scienze umane e scienze economiche/tecniche. Mentre le attività umane sono sempre, per definizione, basate sull’opera dell’essere umano “persona”, i modelli di management sono stati sempre più fondati su aspetti logico-matematici, aritmetico-finanziari ultimamente. Come ho avuto modo di esprimere nell’ultimo anno in molti contesti nei quali si discuteva, volte con eccessiva leggerezza, di Industry 4.0, se questa incongruenza non sarà affrontata e risolta la prossima cosiddetta “rivoluzione industriale” si risolverà in un catastrofico fallimento. Più la tecnologia si fa sofisticata, più si deve investire sulle persone, per renderle capaci di mantenere il dominio sulle macchine e di volgerne la crescente capacità al servizio dell’Uomo. Basta osservare il divario tra gli investimenti in intelligenza artificiale/tecnologia e quelli in intelligenza umana/sviluppo sociale per capire che stiamo andando a trecento all’ora contro un muro solidissimo. Ma c’è ancora tempo per fare qualche importante correzione di rotta, dunque speranza, perciò veniamo alla questione cui ci richiama il titolo.
In un interessantissimo esperimento coronato da grande successo, il CEO di un gigante dell’informatica indiana ha tradotto le proprie riflessioni sul modo di rilanciare la performance di un’impresa che stava entrando in crisi in una rivoluzione copernicana del modello di management. Oggi uno degli opinion makers più considerati nel mondo del business internazionale, Vineet Nayar, già CEO di HCL oggi filantropo a tempo pieno, è partito da una domanda molto semplice, apparentemente banale: dove si crea il valore nella nostra azienda? La risposta trovata da Nayar è stata: “nello spazio tra il nostro ultimo dipendente e il cliente”, intendendosi per “ultimo” quel o quell’insieme di collaboratori che realizzano in pratica il prodotto/servizio che l’impresa fornisce ai clienti. Parliamo dei produttori, ma anche dei venditori, del personale del customer service, dell’assistenza, della progettazione… del centralino… In pratica, è stata la rivelazione che ha illuminato Nayar, il compito del vertice dell’organizzazione dovrebbe esser quello di mettere in grado la periferia di compiere il proprio lavoro, realizzando la miglior utilizzazione delle risorse nel raggiungimento di risultati, ovvero la “performance”. Il contrario della cultura ancora dominante del management, dove l’attenzione è rivolta verso il “basso” a controllare che il dipendente “faccia il suo lavoro”, ovvero raggiunga gli obiettivi fissati dal management. Questo, in troppo frequenti casi, mentre il management è impegnato in lotte di potere, sforzi di carriera e, purtroppo, spesso incompetente a motivare e ispirare.
La grande scoperta di Nayar, dunque, è stata quella di invertire la piramide dell’accountability iniziando a tenere responsabili i manager di mettere i propri collaboratori in grado di svolgere le loro mansioni al massimo dell’efficacia ed efficienza, generando valore. Quest’opera titanica, progressiva e che ha portato risultati eccezionali è narrata in un avvincente libro “Employees first, customer second” (Harvard Business School Publishing, 2010). Lo consiglio davvero a chi vuole approfondire quest’esperienza. Soprattutto a coloro che dubitassero del potenziale di questo approccio: i risultati di business riportati nel libro sono pazzeschi.
Nell’essenza, quest’approccio si configura come una vera e propria rivoluzione manageriale perché riporta al centro l’espressione del potenziale della persona, rimettendo l’organizzazione al servizio delle persone e non viceversa, come troppo spesso accade.
L’inversione dell’accountability dev’essere vista non tanto nell’ottica del “controllo”, anch’esso uno strumento vetusto e inefficace, cioè come se a questo punto dovessero essere i collaboratori a “controllare” il manager. Piuttosto si va verso uno sforzo più collegiale, condiviso, coinvolgente che si ispira per certi aspetti alla metodologia “Agile” nata dal Manifesto for Agile Software Development del 2001. Quindi più che un’accountability in senso stretto, come “render conto” di una propria responsabilità, mutano drammaticamente i flussi di informazione e di feedback, il che ha un impatto molto forte anche sui metodi di valutazione della performance. Il cliente viene coinvolto nel processo di sviluppo del prodotto ma anche in quello di feedback e valutazione, facendone così un componente vitale del ciclo virtuoso di miglioramento incrementale continuo che, in sé, genera valore.
Il concetto stesso di “valutazione” richiede perciò un ripensamento totale e così le sue tempistiche. Mentre moltissime imprese sono ancora abituate alle valutazioni annuali rispetto a obiettivi prefissati, fatte da un manager che porta la responsabilità di far ottenere ai propri collaboratori quelle prestazioni, dove il modello più avanzato è uno dei tanti di “valutazione a 360°”, prendono piede strumenti diversi. Del resto, in un mondo sempre più accelerato, dove i progetti, o le loro unità componenti, si svolgono in tempi spessissimo ben più brevi dell’anno, il miglioramento continuo, l’aggiustamento “in corso d’opera” sono indispensabili. Ed ecco che il superamento del modello gerarchico nel quale la valutazione serve a implementare la politica del bastone/carota, e le previsioni di performance attese da valutare a termini fissi sono tentativi di cristallizzare a priori un futuro incerto, porta a modelli di feedback e valutazione mutualmente migliorativi, dove le persone e i ruoli vengono a livellarsi nello sforzo comune di aderire alla ragion d’essere dell’impresa: il soddisfacimento di alcuni Bisogni Essenziali dei suoi stakeholders.
Aziende del tutto rilevanti come P&G, GM, IBM, Pfizer, Gap e molte altre sono in pieno nella transizione verso modelli di valutazione e responsabilità completamente nuovi, affrontando naturalmente tutte le resistenze di una cultura manageriale abitudinaria e conservatrice. I risultati sono tuttavia incoraggianti.
Vi sono però alcune caratteristiche che credo siano indispensabili perché un sistema di accountability/responsabilità di questo genere funzioni:
Al di là della motivazione, un approccio come quello sommariamente descritto porta progressivamente a mettere a frutto l’intero potenziale umano presente nell’organizzazione poiché massimizza sia il coinvolgimento che la possibilità data a ognuno di contribuire con idee innovative e originali all’ideazione di soluzioni.
Una conseguenza interessante dell’approccio all’accountability inversa, o più propriamente direi “funzionale”, è lo spostamento – parziale – dei poteri decisionali. Quando la responsabilità della generazione del valore e dell’assicurazione della qualità dei processi viene delegata ai team “sul campo” dev’esser data anche una quota di potere decisionale per mettere in atto i comportamenti che vengono individuati nei processi di feedback e osservazione come i più adatti a raggiungere gli obiettivi. Questo è un altro passaggio che sarà molto interessante osservare come verrà accolto dal management più tradizionalista, e che magari tratterò in un futuro articolo.